
- Cultura
Seaspiracy: il documentario di Netflix sui segreti della pesca commerciale
30 aprile, 2021
di Alice De Luca


Seaspiracy: sta tutto nel titolo
Ci insegnano da sempre a non giudicare un libro dalla copertina. Traslando il tutto potremmo dedurne di non giudicare un film dal suo titolo. Di fatto, è un monito poco applicato, lo sappiamo noi e lo sa anche chi i titoli dei film li pensa. Lo sapeva bene anche chi ha scelto il nome Seaspiracy per il nuovo documentario di Ali Tabrizi sulla pesca sostenibile, distribuito da Netflix. Come si capisce intuitivamente, deriva dall’unione tra le parole inglesi sea, mare, e conspiracy, cospirazione. Se è vero che il titolo deve essere una parola chiave più o meno metaforica che serve allo spettatore per capire l’oggetto del film e all’autore per comunicarlo, quello di Seaspiracy è un nome molto efficace. E senza metafore. Prima di vederlo si è attratti dalla volontà di sapere quale sia questa “cospirazione del mare”, dopo averlo visto lo si capisce, ma si rimane con più dubbi e incertezze di prima. Allora mi chiedo: dovrebbe essere questo lo scopo di un documentario?
La cospirazione
La cospirazione di cui vuole informarci Seaspiracy consiste, di base, nel fatto che la pesca commerciale abbia degli effetti devastanti sugli ecosistemi, sulla biodiversità marina, sull’inquinamento da plastiche e anche delle ricadute a livello umanitario, dal momento che sfrutterebbe il lavoro di schiavi. Ma ciò su cui il documentario pone l’accento, più che su tutto questo, è sul fatto che tutto questo non ce lo dicono. E a ingannarci non sarebbero solo le aziende che vendono pesce, ma proprio quelle associazioni che si prodigano per la salvaguardia dei mari e che nasconderebbero legami con i principali promotori della pesca commerciale. In questo sta l’oggetto del documentario anche secondo gli autori, e lo dimostra la scelta del titolo. Non nelle verità, certo scomode, che solleva, ma nella cospirazione, nel fatto che quelle verità ci siano state nascoste fino ad ora.
Un problema di prospettiva
Perché gli autori di Seaspiracy hanno scelto questa prospettiva? Difficile dirlo. Intuitivamente, perché il cospirazionismo attira. Sta di fatto che raccontare una storia non è mai un’azione imparziale. Come si racconta ha ricadute sulla percezione altrui di ciò che si racconta, in misura di gran lunga maggiore di quanto riusciamo a comprendere. È, del resto, la prima responsabilità che si assume ogni narratore.
I rischi del cospirazionismo
Su Seaspiracy ci sono opinioni contrastanti, proprio per la prospettiva che ha scelto. Quella del non-ce-lo-dicono è una retorica che, a mio parere, può generare due tipi di reazioni. La prima sta nello sviluppo di scetticismo nei confronti di quelle associazioni che sensibilizzano su temi ambientali. Se mi hanno nascosto informazioni così importanti, sono davvero realtà a cui io posso credere? Saranno vere le statistiche che riportano? Quali loschi interessi si nasconderanno dietro alle loro campagne? Nelle tasche di chi vanno a finire i soldi delle mie donazioni? È evidente il pericolo che si corre se queste organizzazioni, che sensibilizzano già con fatica, cominciano a perdere credibilità.
L’altra reazione, che in fondo è diretta conseguenza della prima, sta nella totale rinuncia. Non mi posso fidare di nessuno. Nutro il sospetto che dietro ad ogni mia azione, per quanto benintenzionata ci sia qualcosa che non so e che va contro i miei ideali ambientalisti. Qual è allora la soluzione finale della “conspiracy”? Ha senso sforzarsi per questi ideali? Il documentario risponde così: no, non ha senso sforzarsi, allora la soluzione al dubbio “cosa c’è dietro al mio salmone? Cosa non mi immagino sia successo per portarlo sulla mia tavola?” sta nel non mangiare pesce. E qui compare il rischio più grande: non mangiare pesce è una scelta drastica, che non tutti gli spettatori saranno disposti a prendere (o nemmeno ne avranno la possibilità). Allora, a quella percentuale di pubblico che non vorrà o potrà fare questa scelta (e che realisticamente parlando immagino alta), l’unico messaggio che rimarrà impresso dopo la visione di Seaspiracy sarà: “Ne vale la pena? No”. Anche perché di alternative a quella scelta drastica non gliene sono date.
Al di là del modo: il contenuto
Fatta questa grande ma basilare premessa, nessuno negherebbe che il documentario porti alla luce questioni importanti, anche se con informazioni che non sempre reggono alla prova del fact checking.
Oltre a quello della sostenibilità della pesca commerciale, uno dei temi più importanti è sicuramente l’inquinamento degli oceani causato dalla plastica. Secondo quanto riportato, oggi viene scaricato nel mare l’equivalente di un camion di plastica ogni minuto. Questo è un problema che Flowe cerca di affrontare collaborando con Plastic Free, che fino ad ora ha raccolto moltissime tonnellate di rifiuti. Grazie a questa partership, Flowe ha anche adottato 6 tartarughe (oltre ai 3 cetacei adottati con la Onlus Tethys) e partecipa periodicamente a giornate di raccolta. Una di queste si è svolta il 18 aprile all’interno della rassegna di eventi Revolution. Altre questioni importanti che Seaspiracy solleva sono, ad esempio, lo “spinnamento” degli squali, la pesca accessoria e quella intensiva, la salvaguardia dei fondali e delle barriere coralline, i problemi degli allevamenti ittici e non da ultima la schiavitù dei pescatori di gamberetti al largo delle coste thailandesi. Tutti temi su cui è necessario informare e sensibilizzare l’opinione pubblica, nessuno lo negherebbe. Ma altrettanto necessario è farlo con la giusta narrativa.
Fonti: https://www.theguardian.com/environment/2021/mar/31/seaspiracy-netflix-documentary-accused-of-misrepresentation-by-participants